Patologie della colonna vertebrale

Patologie della colonna vertebrale
– Lombalgia
– Cervicalgia
– Ernia del disco lombare
– Stenosi del canale vertebrale lombare
– Ernia del disco cervicale
– Stenosi cervicale
– Osteoporosi
– Fratture vertebrali da osteoporosi

 

LOMBALGIA E CERVICALGIA

La lombalgia è un dolore nella regione lombare originato dalla colonna vertebrale o dalle strutture muscolo legamentose. Una definizione analoga vale per la cervicalgia. Una lombalgia o una cervicalgia possono avere numerose origini, poiché qualsiasi patologia della colonna lombare o cervicale può causare dolore in queste sedi. Le cause più comuni, tuttavia, sono quelle degenerative (da “usura”) delle strutture discali e articolari. Queste forme degenerative vanno differenziate da quelle dovute ad altre cause.

ALTERAZIONI DEGENERATIVE DISCO-ARTICOLARI

Discopatia degenerativa
Con l’avanzare dell’età il disco intervertebrale va incontro a modificazioni fisiologiche, consistenti in: 1) riduzione del contenuto in acqua, 2) diminuzione, e modificazioni della struttura delle proteine che lo costituiscono. Queste modificazioni si verificano soprattutto nel nucleo polposo, che perde la struttura gelatinosa e la netta demarcazione dall’anello fibroso. L’alterazione degenerativa del disco è ben evidenziata dalla risonanza magnetica (RM), che mostra una modificazione del colore del disco, che appare più o meno nero per riduzione del contenuto in acqua, oltre che ristretto rispetto a quelli soprastanti (Fig. 1). La distinzione tra disco invecchiato e disco degenerato non è netta. Si può ritenere il disco degenerato come un disco che presenta alterazioni più marcate e in età più precoce rispetto alla degenerazione fisiologica. Per effetto di tali modificazioni, il disco degenerato presenta delle fessurazioni radiali e circonferenziali; spesso è ridotto in altezza, in misura anche molto marcata.

Fig. 1 Discopatia degenerativa L5-S1 (il disco intervertebrale appare nero alla RM)

Il disco degenerato ha una elasticità ridotta e, se sottoposto ad un carico (peso) costante, si deforma maggiormente rispetto a quello sano. La degenerazione discale causa, quindi, una riduzione della stabilità del segmento di moto. Il disco degenerato, inoltre, presenta un aumento della flessibilità rotatoria, che causa un aumento delle sollecitazioni sulle articolazioni posteriori.

Artrosi delle articolazioni posteriori
Le articolazioni posteriori possono andare incontro a fenomeni artrosici per tendenza costituzionale del soggetto ad alterazioni degenerative articolari, per sovraccarico funzionale (lavori o sport “pesanti”) o per degenerazione e riduzione di altezza del disco del relativo segmento di moto. In quest’ultimo caso, cambiano i normali rapporti anatomici tra le apofisi articolari, con conseguente attrito tra le superfici articolari rivestite da cartilagine. Le alterazioni artrosiche comportano un ispessimento delle apofisi articolari. Si può associare, inoltre, un’infiammazione cronica delle strutture molli dell’articolazione (membrana sinoviale). Oltre alle alterazioni degenerative articolari possono essere presenti osteofiti (becchi ossei) dei bordi vertebrali per ossificazione delle porzioni dell’anello fibroso che su di essi si inseriscono.

Instabilità vertebrale
Una delle due vertebre di un segmento di moto (costituito da due vertebre adiacenti e dal disco intervertebrale) può presentare un’abnorme mobilità nei movimenti di flessione-estensione della colonna per alterazioni degenerative disco-articolari.

LOMBALGIA

Caratteristiche e diagnosi

Discogenica
Si osserva per lo più tra 30 e 50 anni. È causata da una discopatia degenerativa di uno o più dischi intervertebrali. I dischi più spesso interessati sono L4-L5 e L5-S1. In alcuni soggetti possono essere interessati tutti i dischi lombari. La lombalgia può essere acuta, cronica o ricorrente. È acuta quella che dura meno di 6 settimane. È cronica quella che dura più a lungo; questa può essere discontinua, con periodi di benessere brevi, o continua. Una lombalgia ricorrente è quella in cui vi sono lunghi periodi di benessere tra un episodio di dolore e l’altro.

Una lombalgia acuta che dura 2 settimane o più è causata di solito da una fessurazione del disco. Questa causa una protrusione, seppure minima, dell’anello fibroso o un’alterazione dei movimenti del segmento di moto, con conseguente stimolazione delle fibre nervose che innervano l’anello fibroso. Fessurazioni discali e riduzione di altezza del disco sono la causa di una lombalgia cronica.

Il quadro clinico di una lombalgia acuta è caratterizzato da dolore spesso molto intenso (colpo della strega), che può costringere il paziente a letto, e spesso da scoliosi antalgica (deviazione della colonna verso un lato per dolore). Vi può essere, inoltre, una ridotta mobilità della colonna nella flessione del tronco in stazione eretta. Nella lombalgia cronica il dolore è meno intenso, ma frequente o continuo, e si accentua spesso con gli sforzi fisici.

Per la diagnosi, in una lombalgia acuta, non sono di norma necessarie radiografie prima di 3 settimane dall’inizio del dolore. Se questo persiste, può essere indicata una risonanaza magnetica (RM) diretta a dimostrare una discopatia degenerativa (“disco nero”), oltre che da un’ eventuale ristrettezza del disco, e l’assenza di altre condizioni patologiche. Talora la RM può anche dimostrare una piccola ernia discale che non comprime strutture nervose. Nelle forme croniche, il disco è spesso ristretto e degenerato (appare nero alla RM nelle sequenze T2 – Fig.1).

Artrogena
Si riscontra di norma in soggetti di oltre 50 anni. Generalmente la lombalgia è cronica, ma spesso meno intensa di quella discogenica.

Le radiografie, e la RM e la TAC, mostrano alterazioni artrosiche delle articolazioni posteriori, nel rachide lombare basso o in tutto il rachide e spesso anche ristrettezza, per alterazioni degenerative, di uno o più dischi.

Una particolare forma di patologia, peraltro ancora non ben definita sotto il profilo anatomico, è la cosiddetta “sindrome delle faccette” (il termine “faccette” è usato per indicare la superficie articolare, rivestita da cartilagine, delle apofisi articolari che formano l’articolazione posteriore). Si ritiene che sia causata da infiammazione delle strutture molli dell’articolazione (membrana sinoviale, capsula articolare) per sovraccarico funzionale, disarmonica o eccessiva mobilità reciproca delle faccette, ed iniziali alterazioni artrosiche. 

Da instabilità vertebrale
Il dolore può essere presente solo nella prolungata stazione eretta o nella prolungata deambulazione
, oltre che negli sforzi fisici. In questi casi si tratta di solito di una spondilolistesi degenerativa visibile sulla comune radiografia laterale, con ipermobilità della vertebra interessata nelle radiografie in flesso-estensione.

Da altre cause
Un dolore nella regione lombare, generalmente cronico, può essere causato da molte altre patologie vertebrali, quali tumori, infezioni o malattie reumatiche. Anche patologie extravertebrali possono causare un dolore simil-lombalgico; le più comuni sono i tumori retroperitoneali e l’aneurisma dell’aorta addominale. Peraltro, nella maggior parte dei casi in cui non vi sono alterazioni sulle radiografie della colonna lombare e sulla RM, la lombalgia è idiopatica, ossia, senza causa nota. Di solito si tratta di soggetti in età giovanile o media, in cui il dolore può essere dovuto a difetti posturali durante l’attività lavorativa, a scarsa mobilizzazione della colonna e/o attivazione della muscolatura addominale o paravertebrale, o sforzi fisici effettuati scorrettamente. In non pochi casi di lombalgia idiopatica vi è una componente psicogena nel dolore, come può avvenire in soggetti con depressione o ipocondria. Molti di questi pazienti hanno dolore anche in altre regioni del corpo, come avviene nella cosiddetta fibromialgia.

Trattamento
Il trattamento della lombalgia acuta consiste in riposo a letto per 2-5 giorni e somministrazione di anti-infiammatori e decontratturanti. Dopo alcuni giorni può essere utile la fisioterapia. Per lo più il dolore scompare in 1-3 settimane.

Una lombalgia cronica viene trattata di solito con ginnastica posturale e istruzioni sull’uso corretto della colonna, oltre che con la rassicurazione del paziente sulla benignità della patologia e, se necessario, con antidepressivi. Ciò vale anche, e soprattutto, per i pazienti con lombalgia idiopatica. Nei periodi di accentuazione del dolore si può ricorrere ad anti-infiammatori e fisioterapia. Nei pazienti con dolore più o meno continuo, che non rispondono ai trattamenti conservativi, vi può essere indicazione ad effettuare trattamenti “invasivi”. Questi possono essere distinti in percutanei, semi-percutanei e di chirurgia a cielo aperto.

Trattamenti chirurgici percutanei – MINI INVASIVI
Nei pazienti con lombalgia artrogena, l’unica metodica percutanea indicata è la rizotomia percutanea) – (Fig. 2). Questa consiste nell’uso di un ago la cui punta emette corrente a radiofrequenza. La punta dell’ago viene introdotta, sotto controllo radioscopico, nella zona in cui decorre la branca mediale del ramo posteriore del nervo zigoapofisario, ossia quello che innerva le articolazioni posteriori. L’emissione di corrente pulsata (che crea una temperatura locale di 37-40°C in un raggio di pochi millimetri) determina una neuromodulazione del ramo nervoso, ossia una produzione da parte della fibra nervosa di sostanze antidolorifiche – endorfine, e nello stesso tempo viene innescata una reazione antiinfiammatoria, mediante produzione di citochine, che riducono il dolore. Con l’uso di corrente continua a temperatura più elevata si distrugge il nervo. Questa metodica viene spesso effettuata a due o più livelli vertebrali contigui poiché un’articolazione posteriore è innervate da rami nervosi di due o più livelli.

Uno o più giorni prima di effettuare la procedura può essere utile, ma non indispensabile, effettuare un test dell’anestetico, che consiste nell’iniettare dell’anestetico locale nella zona in cui agirà la radiofrequenza. Se il paziente ha un miglioramento netto del dolore lombare per 2-3 ore (tempo durante il quale è efficace l’anestetico), vi è, sia pure approssimativamente, una prova che la procedura sarà efficace.

I risultati di questa metodica, che può essere effettuata in regime ambulatoriale, sono soddisfacenti (miglioramento o scomparsa del dolore) in circa il 85% dei casi. Se dopo mesi o anni il dolore ricompare si può ripetere la procedura, che se correttamente effettuata non crea alcun danno, non solo se si effettua una neuromodulazione, ma anche se si attua la distruzione del nervo.

Una metodica usata per la lombalgia discogenica è la cosiddetta IDET (IntradiscalElectrothermal Therapy). Essa consiste nell’introdurre nel disco un sottile catetere sotto visione radioscopica. Il catetere viene fatto avanzare lungo la superficie interna dell’anello fibroso fino alla porzione posteriore di esso. Il catetere è fornito di un generatore di corrente che produce una temperatura di 90°. Il meccanismo di azione di questa metodica non è noto, ma è stato ipotizzato che il calore possa distruggere le fibre nervose dell’anello fibroso. Questa metodica è poco usata per la bassa percentuale di risultati soddisfacenti.

Negli ultimi pochi anni si è iniziato ad inoculare cellule di nucleo polposo del paziente, coltivate in vitro, in un disco degenerato. L’obiettivo è di sostituire il tessuto degenerato con tessuto sano. Si tratta di una metodica che ha sicuramente un futuro, ma attualmente è in fase ancora sperimentale.

Di norma, in pazienti con lombalgia cronica discogenica, non vi è indicazione ad effettuare trattamenti, quali la nucleoplastica, la nucleoaspirazione o la laserdiscectomia, se non nei casi in cui vi è una protrusione posteriore del disco o una vera ernia, responsabile anche di qualche lieve fastidio irradiato (ad esempio, regione glutea).

Fig. 2 Rizotomia percutanea lombare

Trattamenti semi-percutanei
Con il termine semi-percutaneo intendiamo un trattamento che comporta un’incisione cutanea di circa 2 cm, effettuato sotto controllo radioscopico, senza esporre chirurgicamente la struttura da trattare ed effettuabile in anestesia locale. L’intervento spaziatore interspinoso. Questo è un piccolo inserto (o protesi) in materiale “plastico” biocompatibile o in metallo (titanio) (Fig. 3), che viene introdotto tra le apofisi spinose di due vertebre contigue (parte posteriore delle vertebre, senza entrare nel canale spinale). Esso agisce 1) limitando alcuni movimenti delle due vertebre (particolarmente l’estensione) e 2) allontanando le vertebre stesse. Ciò comporta una riduzione e una migliore distribuzione dei carichi sul disco intervertebrale, e una riduzione delle sollecitazioni meccaniche sulle articolazioni posteriori per la limitazione dell’estensione delle due vertebre del segmento di moto.

Questi spaziatori interspinosi semi-percutanei sono indicati in pazienti con lombalgia discogenica, quando il disco non è particolarmente ristretto e in pazienti con lombalgia artrogena. Un’indicazione aggiuntiva è la sindrome delle faccette articolari, almeno nei casi in cui il test dell’anestetico, iniettando il farmaco nello spazio articolare o alla periferia dell’articolazione, migliora temporaneamente il dolore.

Sebbene gli spaziatori siano molto resistenti alle sollecitazioni meccaniche, non limitino il movimento globale della colonna lombare, anche se applicati a due livelli contigui, e non vadano incontro con il tempo a corrosione, è opportuno di solito applicarli in soggetti di età media o senile.

Quando applicati con le giuste indicazioni essi danno risultati soddisfacenti in circa il 70% dei pazienti.

Fig. 3 Distanziatore interspinoso inserito percutanemente (mediante una incisione di 2 cm)

Trattamenti chirurgici aperti

Sono quelli in cui si espone la struttura da trattare con un’incisione più o meno ampia. 

Alcuni spaziatori interspinosi possono essere impiantati solo attraverso un’incisione cutanea più o meno ampia. Ciò conferisce maggiore stabilità alle due vertebre del segmento di moto e limita, in qualche misura, anche il movimento di flessione delle vertebre. Questi spaziatori hanno le stesse indicazioni dei quelli percutanei. La percentuale di risultati soddisfacenti è simile a quella degli spaziatori percutanei.

Negli ultimi anni, per la lombalgia discogenica, sono stati ideate protesi di nucleo ploposo introdotte nel disco attraverso il canale vertebrale o con accessi laterali alla colonna vertebrale. I risultati di queste protesi non sono ancora ben chiari sia per il numero ancora limitato di impianti effettuati, sia per la brevità dei controlli postoperatori, che non consentono di valutare la loro “sopravvivenza” nel tempo.

Da circa 20 anni vengono impiantate, per lombalgia discogenica in soggetti di età giovanile o media, protesi discali dirette a rimpiazzare l’intero disco. L’intervento, effettuato attraverso una via di accesso addominale, comporta lo svuotamento del disco e l’inserimento della protesi. Si tratta di un intervento ancora poco effettuato perché più complesso di altri, perchè la “sopravvivenza” della protesi nel corso dei decenni è ancora poco nota e perchè i risultati ottenuti da differenti chirurghi sono, almeno in parte, contrastanti.

Da alcuni anni si effettuano anche altri interventi nella lombalgia discogenica e in forme lievi di lombalgia artrogena (sdr. faccette articolari), attraverso cui si possono inserire delle viti, mediante una piccola incisione di 2 cm, che determinano un “sostegno “ nei confronti della articolazione, determinando una riduzione della pressione intradiscale, dimostrata da studi in vitro e su cadavere (Fig. 4a-b).

Fig. 4a Protesi percutanee di supporto articolare, controllo RX

Fig. 4b Protesi percutanee di support articolare, controllo TC

In alcune forme severe di lombalgia discogenica associate a note artrosiche severe a carico delle faccette articolari, si utilizzano da pochi anni dei particolari distanziatori non più interspinosi, ma interlaminari (vale a dire che non sono inseriti solamente tra le apofisi spinose delle vertebre, ma interessano anche le lamine). Tali dispositivi hanno un’area maggiore poiché si inseriscono tra le lamine vertebrali, ed in tal modo la loro area di carico è maggiore, e da un punto di vista biomeccanico mantengono inalterata non solo la flessione e l’estensione del tratto interessato, ma i movimenti di torsione, garantendo una situazione biomeccanica postoperatoria più vicina al funzionamento di una colonna vertebrale non operata. Peculiarità di tali dispositivi è di permettere la fusione tra 2 vertebre adiacenti, poiché in essi si inserisce osso prelevato dalle strutture circostanti e sostituto osseo bio attivo (tri calcio fosfato). Ovviamente non deve esservi una ipermobilità delle vertebre da operare. Rispetto alla chirurgia classica, che realizza la fusione con ausilio di viti e barre di connessione, tali dispositivi permettono di evitare le complicanze legate al posizionamento delle viti (malposizionamento, lesioni neurovascolari, rottura/mobilizzazione), e consentono comunque il ricorso all’impianto di viti e barre se in futuro vi è necessità (Fig. 5a-5b).

L’intervento aperto più “classico” e ancora quello più largamente effettuato, è la fusione delle due vertebre adiacienti al disco. Esso è indicato nella lombalgia discogenica, in quella artrosica grave ed è l’unico intervento da attuare nelle instabilità vertebrali moderate o marcate, quali la spondilolistesi degenerativa con netta ipermobilità della vertebra scivolata nelle radiografie in flessione ed estensione della colonna. L’intervento viene effettuato di solito in due modi: fusione postero-laterale (o intertrasversaria) o fusione intersomatica.

Fig. 5a Dispositivo interlaminare che permette la fusione (ILIF – Nuvasive)

Fig. 5b Controllo RX di dispositivo interlaminare inserito al passaggio lombosacrale tra L5 e S1

 

CERVICALGIA 

Le condizioni degenerative comunemente in causa sono la discopatia degenerativa (o talora una protrusione posteriore del disco, per lo più mediana) e la patologia artrosica delle articolazioni posteriori. Le due condizioni sono spesso associate allo stesso livello.

Sono interessati per lo più i livelli C5-C6 e C6-C7, e talora anche altri dischi. Spesso sono presenti osteofiti (becchi ossei) marginali anteriori del corpo vertebrale.

La cervicalgia può essere: acuta, cronica, o ricorrente. La forma acuta è più frequente nelle discopatie, in cui è dovuta probabilmente ad una fessurazione dell’anello fibroso. Quella cronica è dovuta più spesso ad artrosi. La forma acuta è caratterizzata da: dolore insorto da pochi giorni o settimane; e riduzione della mobilità attiva e passiva del collo, e talora torcicollo, per contrattura dei muscoli regionali. Nella cervicalgia cronica, oltre al dolore, predomina la riduzione della mobilità del collo, particolarmente nelle forme artrosiche a parecchi livelli.

Tra le altre cause di cervicalgia, prescindendo da patologie rare, quali tumori o infezioni, le più frequenti sono: 1) Un trauma distorsivo cervicale (“colpo di frusta”, ad esempio da tamponamento), in cui spesso il dolore si associa a cefalea e vertigini. La cervicalgia dura di solito da 1 a 4 settimane, ma non raramente persiste una dolenzia, talora anche per mesi. 2) Alterazioni posturali del collo, che causano una cervicalgia cronica. In alcuni soggetti, infatti, spesso giovani, non sono presenti alterazioni discali o articolari dimostrabili con i mezzi diagnostici oggi disponibili. In molti di questi casi, la cervicalgia può essere attribuita ad alterazioni della postura od a ridotta mobilizzazione del collo, come può avvenire in coloro che usano a lungo il computer. Come per la lombalgia, peraltro, vi può essere in questi pazienti una componente psicogena per depressione o ipocondria. 

Trattamento 

Conservativo
Il trattamento delle forme acute non traumatiche si avvale di anti-infiammatori, decontratturanti e, raramente, di un collare per breve tempo. Dopo qualche giorno dall’inizio del dolore, può essere utile la fisioterapia. In presenza di una componente psicogena possono essere indicati gli antidepressivi e, talora, una psicoterapia. Nelle cervicalgie da trauma distorsivo il trattamento è simile, ma in questi casi è quasi sempre utile un collare per 1-3 settimane e non sono indicate le manipolazioni. 

Nelle forme croniche è utile la ginnastica della colonna cervicale, la correzione di atteggiamenti posturali scorretti, e la fisioterapia antalgica. Anche in queste forme possono essere utili le manipolazioni. 

Chirurgico
L’unico trattamento correntemente indicato è la rizotomia percutanea nella cervicalgia artrogena cronica resistente a prolungati trattamenti conservativi. In questa forma si possono ottenere risultati soddisfacenti in percentuali simili o anche superiori a quelle ottenute nella lombalgia. Un’indicazione aggiuntiva è rappresentata dalla cervicalgia post-traumatica, quando questa persiste a lungo, seppure con sintomi meno intensi che nella fase iniziale. Talora la metodica è efficace anche in pazienti con discopatie multiple.

ERNIA DEL DISCO LOMBARE

Un’ernia discale è una sporgenza circoscritta del disco o una fuoriuscita parziale o totale del nucleo polposo fuori dai limiti del disco. Essa si verifica in un disco più o meno degenerato e fessurato e si sviluppa per lo più tra 30 e 50 anni.

Tipi di ernia
Si distinguono tre tipi di ernia: contenuta, espulsa e migrata. 

L’ernia contenuta (protrusione) è la forma più frequente. Il nucleo polposo si incunea nelle fessurazioni dell’anello fibroso e giunge a contatto della porzione più esterna di esso, ma non la perfora (Fig. 6a).

Fig. 6a Ernia del disco contenuta

Nell’ernia espulsa il tessuto erniato fuoriesce parzialmente o completamente dai limiti del disco, ma non migra a distanza da esso, nel canale vertebrale. Si verifica quando le fessurazioni sono presenti anche nella porzione più periferica dell’anello fibroso (Fig. 6b). 

L’ernia migrata è quella in cui il frammento espulso si distacca completamente dal disco e migra a distanza da esso. Il frammento può migrare nel canale spinale verso l’alto o verso il basso rispetto al disco, o nel forame intervertebrale (Fig. 6b). 

Fig. 6b Ernia del disco non contenuta

Sede dell’ernia
L’ernia può essere: mediana, postero-laterale o intraforaminale. 

L’ernia mediana si sviluppa nella porzione centrale del disco. L’ernia postero-laterale si sviluppa nella porzione laterale della faccia posteriore del disco. L’ernia intraforaminale occupa la regione del forame intervertebrale. 

Definizione clinica
Un’ernia discale lombare, considerata in senso strettamente clinico (ossia in un paziente), è una condizione patologica che causa una compressione di una o più radici nervose che decorrono nel canale spinale lombare. 

Dischi interessati
I dischi più spesso interessati sono L4-L5 (penultimo), L5-S1 (ultimo) e, meno frequentemente L3-L4 (terzultimo). La maggiore frequenza delle ernie negli ultimi due dischi è probabilmente dovuta alla maggiore frequenza con cui essi degenerano.

L’ernia può essere di qualsiasi tipo: contenuta, espulsa o migrata. Le ernie più comuni sono quelle contenute od espulse, situate in sede postero-laterale. Esse comprimono solo o essenzialmente la radice che emerge dal sacco durale a livello del disco intervertebrale interessato.

Sintomi e segni clinici comuni
Le ernie L4-L5 e L5-S1 determinano, di solito, una lombosciatagia o solo una sciatalgia (dolore all’arto inferiore sulla zona posteriore o laterale). L’ernia L3-L4 determina una lombocruralgia o solo una cruralgia (dolore nella regione anteriore dell’arto); una lombocruralgia, peraltro, può essere causata anche da un’ernia intraforaminale L4-L5.

Un’ernia non contenuta o espulsa determina di solito anche lombalgia; un’ernia migrata causa generalmente solo dolore radicolare.

Vi può essere scoliosi antalgica (inclinazione della colonna lombare verso un lato), riduzione della flessione in avanti del tronco per dolore alla colonna o all’arto inferiore e positività delle manovre cliniche di stiramento delle radici nervose lombari all’esame obiettivo.

Sintomi e segni clinici specifici
Ernia L4-L5. Un’ernia postero-laterale comprime la radice L5. Il dolore e i disturbi della sensibilità cutanea (addormentamento, formicolio) sono localizzati nella regione posteriore della coscia e laterale della gamba e, talora, anche nella parte interna del dorso del piede e all’alluce. I principali muscoli innervati dalla radice sono: l’estensore lungo dell’alluce (ELA), il tibiale anteriore (TA) e i peronieri. Questa radice non determina riflessi osteotendinei.

In fase di deficit, vi è ridotta forza di estensione dell’alluce e, meno frequentemente, di flessione dorsale contrastata del piede. In presenza di un grave deficit di questi muscoli, il paziente può avere difficoltà a deambulare per ridotta capacità o incapacità a flettere dorsalmente il piede (piede cadente). Vi può essere minore sensibilità sulla porzione interna del dorso del piede e sull’alluce.

Ernia L5-S1. Un’ernia postero-laterale comprime la radice S1. Il dolore e i disturbi sensitivi sono localizzati nella regione posteriore della coscia e della gamba, o anche nella regione laterale del dorso del piede e pianta del piede. I muscoli innervati dalla radice sono essenzialmente i muscoli del polpaccio. La S1 determina il riflesso del tendine di Achille.

Nelle sindromi deficitarie, vi può essere ridotta capacità o incapacità a sollevarsi sulla punta del piede del lato affetto. Il riflesso achilleo può essere ridotto o assente. Talora la sensibilità cutanea è ridotta sulla faccia laterale del dorso del piede.

Ernia L3-L4. Un’ernia postero-laterale comprime la radice L4, che innerva la cute della faccia anteriore della coscia e della faccia interna della gamba. Questa radice ha un ruolo preponderante nell’ innervazione del quadricipite (muscolo anteriore della coscia) e nel determinismo del riflesso rotuleo (del ginocchio).

Il paziente lamenta dolore cruralgico (coscia anteriore) che aumenta nella flessione del ginocchio in posizione prona ed eventuale ipoestesia nella faccia interna della gamba. Nelle compressioni radicolari molto marcate vi può essere riduzione della forza di estensione del ginocchio (cedimento del ginocchio) per ridotta forza del quadricipite. Il riflesso rotuleo può essere ridotto o assente. Vi può essere minore sensibilità sulla faccia interna della gamba.

Ernia intraforaminale L4-L5. È l’ernia intraforaminale più comune. Essa comprime la radice L4 quando fuoriesce dal canale vertebrale attraverso il forame intervertebrale L4-L5. Il quadro clinico è uguale a quello prodotto da un’ernia postero-laterale L3-L4.

Diagnosi strumentale
Si effettua di solito con la risonanza magnetica (RM) del rachide lombare. Anche la TAC può essere, in alcuni casi, sufficiente. L’elettromiografia (EMG) può essere utile per documentare un deficit muscolare od escludere altre patologie neurologiche.

Trattamento

Conservativo
Quando i sintomi sono iniziati da pochi giorni o settimane, è indicato il trattamento conservativo: riposo a letto per pochi giorni; anti-infiammatori, possibilmente cortisonici per 1 settimana a dosi scalari e poi non cortisonici per 2-3 settimane; fisioterapia lombare, in presenza di lombalgia, dopo 2-3 settimane dall’inizio; ginnastica posturale, dopo 3-4 settimane dall’inizio del dolore all’arto inferiore, se questo ha mostrato tendenza alla regressione. Di norma non sono indicate manipolazioni vertebrali nelle sindromi compressive con deficit muscolari all’arto inferiore. In alcuni casi con sindrome irritativa e dolore vivace possono essere indicate 1 o 2 infiltrazioni epidurali (nel canale vertebrale) di un cortisonico a lento assorbimento.

In molti casi la sintomatologia si risolve in 4-6 settimane. Il meccanismo è la fagocitosi del tessuto erniato da parte dei macrofagi nelle ernie migrate. Nelle ernie espulse è in gioco questo meccanismo, ma anche una possibile disidratazione del tessuto erniato. La disidratazione, e quindi la retrazione dell’ernia, è l’unico meccanismo nelle ernie contenute; tuttavia, esso è molto lento (mesi) o può non verificarsi.

Chirurgico
Il trattamento chirurgico è indicato, già dopo pochi giorni dall’inizio dei sintomi, in pazienti con gravi deficit motori o dolore “straziante” che non si risolve con anti-infiammatori. Escludendo questi casi, i trattamenti chirurgici sono indicati nei pazienti con dolore all’arto che dura da più di 2 mesi, in cui, quindi, vi è scarsa tendenza alla risoluzione spontanea. I trattamenti chirurgici si distinguono in percutanei e a cielo aperto.

Chirugici percutanei – MINI INVASIVI
I trattamenti percutanei sono quelli che non comportano un’incisione della cute, o l’incisione è di pochi millimetri, e vengono effettuati sotto visione radioscopica o sotto guida TAC della colonna. 

Comprendono:
1)
Nucleoaspirazione. Questa metodica è stata ideata alla fine degli anni ’80 con la creazione di uno strumentario che rende possibile l’asportazione del nucleo polposo del disco erniato mediante un meccanismo combinato di “taglio ed aspirazione”. Il modo con cui la metodica agisce sembra legato ad una riduzione della pressione all’interno del disco, tale da determinare una decompressione della radice nervosa con riduzione o scomparsa del dolore all’arto. La nucleoaspirazione è indicata nei pazienti con ernia contenuta (protrusione) di picole o medie dimensioni, disco di altezza non nettamente ridotta e assenza di deficit neurologici marcati o stenosi lombare. La procedura viene effettuata in anestesia locale e sotto controllo radioscopico. Attraverso una piccola incisione cutanea si inserisce al centro del disco una cannula di 2,6 mm di diametro che taglia ed aspira automaticamente il nucleo polposo. Il nucleotomo viene attivato per 15-20 minuti e si aspirano 2-5 g di tessuto. 

Attualmente lo strumentario originale è stato sostituito da una cannula più sottile che agisce con un meccanismo simile. La percentuale di risultati soddisfacenti è del 65-70%. Il dolore all’arto inferiore può persistere per qualche settimana, anche nei casi che hanno un buon risultato finale. 

2) Nucleoplastica o coblazione. E’una tecnica che utilizza la radiofrequenza. La corrente generata all’interno del disco erniato produce una temperatura di 50°-70°C che crea un’area di coagulazione termica del tessuto con conseguente riduzione della pressione all’interno del disco. Oltre a questa azione fisica, la nucleoplastica determina modificazioni biochimiche per la sua azione sulle citochine (proteine coinvolte nelle reazioni infiammatorie) presenti nel disco. Le indicazioni della metodica sono simili a quelle della nucleoaspirazione: ernie contenute piccole o medie responsabili di dolore all’arto, altezza del disco intervertebrale in larga misura conservata e assenza di stenosi lombare. L’intervento è eseguito in anestesia locale con leggera sedazione endovenosa e sotto controllo radioscopico. Anche per questa metodica, la percentuale di successo si aggira intorno al 65-70%

3) Discectomia Laser o laserdiscetomia. La parola Laser significa “Light Amplification (by) Stimulated Emission (of) Radiation” (amplificazione della luce attraverso emissione stimolata di radiazioni). L’energia, molto elevata, emessa dal Laser Diodo 980nm (il più usato) è assorbita quasi interamente dal disco entro 3-4 mm dalla zona di emissione, senza alcun danno ai tessuti circostanti. L’azione del Laser consiste sia in una vaporizzazione, sia in una retrazione del tessuto erniato, con conseguente decompressione della radice nervosa. L’intervento è eseguito in anestesia locale, con due possibili modalità: sotto visione radioscopica o sotto guida TAC (Fig.7a-7b).

Fig. 7a Discectomia laser percutanea TC guidata

Fig. 7b Discectomia laser TC guidata. Visualizzazione della sonda laser e ricostruzione 3D

Quando effettuato sotto visione radioscopica si introduce un ago di 0.8 mm di diametro al centro del disco, o il più possibile posteriormente, e, introdotta in esso la fibra ottica, si attiva il Laser. Le indicazioni e le percentuali di successo sono simili a quelle della nucleoaspirazione o della nucleoplastica, ma nel caso del laser il disco può essere anche di altezza ridotta fino al 30% del normale.

L’intervento effettuato sotto guida TAC (Fig. 7a-b), consiste nel visualizzare, con la TAC, il canale spinale e le strutture nervose in esso contenute (il sacco durale e le due radici nervose – destra e sinistra – che da esso fuoriescono), oltre che l’ernia discale che comprime una delle radici o anche il sacco durale. Si introduce l’ago con la fibra ottica nel canale spinale facendone giungere la punta al centro del disco. Attivato il Laser, si retrae progressivamente l’ago portando la punta al centro dell’ernia e poi alla sua periferia fino in vicinanza della radice nervosa compressa. Questa tecnica consente di agire direttamentre sull’ernia; con essa, inoltre, possono essere trattate non solo ernie contenute, ma anche ernie con una piccola parte di tessuto espulso purchè in connessione con il disco, oltre ernie di difficile approccio chirurgico, quali le ernie toraciche. La percentuale di risultati soddisfacenti raggiunge l’80%.

4) Nell’ultimo decennio, o poco più, l’introduzione di endoscopi sempre più perfezionati e di piccole dimensioni, e di speciali strumentazioni chirurgiche ha modificato la tecnica originale e fatto progredire la metodica endoscopica, che attualmente viene effettuata, con cannule di 3,5-4,5 mm, per lo più mediante un accesso al disco attraverso il forame intervertebrale. Con questa tecnica è possibile visualizzare la radice nervosa, il disco e il tessuto erniato, oltre che controllare la rimozione di quest’ultimo (Fig. 8a-8b). Inoltre, in aggiunta o in sostituzione degli strumenti manuali, può essere usato un raggio Laser, con gli stessi obiettivi ed effetti di quello sopra descritto.

Si tratta, peraltro, di una metodica che, pur avendo percentuali di successo che raggiungono circa il 70%, non ha finora raggiunto una larga diffusione.

Fig. 8a Discectomia endoscopica

Fig. 8b Discectomia endoscopica (visualizzazione radice nervosa)

Chirurgici a cielo aperto

Sono gli interventi chirurgici che comportano l’esposizione della struttura da trattare con un’incisone cutanea di piccole o grandi dimensioni. I trattamenti chirurgici a cielo aperto si effettuano nei casi in cui non sono indicati quelli percutanei o il paziente non accetta il rischio di insuccesso che questi comportano.

Comprendono:
1) Discectomia convenzionale. Viene effettuata ad occhio nudo mediante un’incisione di 6-8 cm. Dopo divaricazione dei muscoli perivertebrali, si asporta una parte della lamina a monte ed una parte della lamina a valle del disco, la porzione interna delle apofisi articolari (articolazione posteriore) e il legamento giallo. Si espone il sacco durale e la radice nervosa che da esso fuoriesce e, sotto a questa, il disco erniato. Questo viene inciso e svuotato del suo contenuto (essenzialmente nucleo polposo). Ciò è quanto si fa nelle ernie contenute. In quelle espulse, si rimuove il frammento espulso e si svuota poi il disco. Nelle ernie migrate, si individua il disco, e per lo più lo si svuota; poi si va a ricercare il frammento libero migrato a distanza e lo si rimuove. Il paziente si alza dopo 2 giorni e viene dimesso di solito dopo 3-5 giorni.

2) Microdiscectomia. Comporta un’incisione di 3-4 cm, una divaricazione più limitata dei muscoli e, soprattutto, una ottima visione delle strutture anatomiche profonde. Ciò consente una più ridotta asportazione delle lamine e soprattutto delle apofisi articolari (importanti per la stabilità vertebrale), una più delicata divaricazione delle strutture nervose e una migliore visione dell’ernia, soprattutto quando questa è migrata. Di norma il paziente viene dimesso il giorno dopo l’intervento, inizia la ginnastica posturale dopo 10 giorni e può tornare ad un lavoro sedentario dopo 2-3 settimane.

I risultati soddisfacenti in termini di scomparsa del dolore all’arto sono del 90-95%. A breve e medio termine essi sono migliori rispetto alla discectomia convenzionale, ma dopo 6-8 mesi sono uguali. Comunque, sia con la metodica convenzionale, sia con la microdiscectomia, una lombalgia, di solito modesta, può persistere nel tempo o ricomparire a distanza perchè il disco operato è degenerato o per la frequente coesistenza di altri dischi degenerati.

3) Microdiscectomia con endoscopio. Si effettua un’incisione di 2-2,5 cm attraverso la quale si introduce una cannula munita di luce fredda e una telecamera che consente di vedere le manovre chirurgiche su un televisore (in modo analogo a quanto si effettua per le artroscopie, ad esempio il ginocchio). La cannula endoscopica viene poggiata sulle lamine delle vertebre tra cui si trova il disco erniato e si procede ad eseguire lo stesso tipo di intervento che si effettua con la microdiscectomia. Rispetto a questa è una metodica più indaginosa. Per questo motivo e per il fatto che non ha significativi vantaggi rispetto alla microdiscectomia, è scarsamente usata.

STENOSI DEL CANALE VERTEBRALE LOMBARE

E’ una patologica ristrettezza del canale vertebrale che causa una compressione delle radici nervose in esso contenute. La causa è un’artrosi delle articolazioni posteriori di due vertebre contigue, associata o meno ad una ristrettezza costituzionale (propria del soggetto) del canale vertebrale. La stenosi si verifica tra due vertebre contigue, ossia nell’area intervertebrale, ad un “livello” (esempio, tra quarta e quinta lombare) od a più livelli.

Una forma particolare di stenosi, piuttosto frequente, è quella che si verifica in presenza di una spondilolistesi degenerativa; in questo caso la ristrettezza del canale è prodotta anche dallo scivolamento della vertebra rispetto a quella sottostante.

Classificazione
Si distinguono due forme: 1) stenosi centrale, che interessa l’intero canale spinale; 2) stenosi laterale, che causa una ristrettezza della porzione laterale del canale spinale in cui decorre la radice nervosa prima di fuoriuscire dalla colonna attraverso il forame intervertebrale. Si tratta di solito di soggetti in età adulta o, soprattutto, senile.

Sintomi
La stenosi, come tale, causa disturbi agli arti inferiori. Una lombalgia è spesso presente, ma non è un elemento costante. Essa può essere dovuta ad artrosi delle articolazioni posteriori, a discopatie o ad una spondilolistesi degenerativa.

La sintomatologia tipica di una stenosi centrale è la claudicazione intermittente lomboradicolare: il paziente non ha disturbi a riposo, mentre ha dolore, formicolio o addormentamento ad uno o ambedue gli arti inferiori durante la deambulazione; se si ferma o si siede, i disturbi scompaiono, per ricomparire alla ripresa della marcia. Anche una stenosi laterale può causare un quadro di claudicazione intermittente. Con maggiore frequenza, tuttavia, vi è dolore radicolare continuo, eventualmente accentuato dalla deambulazione.

Esame del paziente e diagnosi
L’esame molto spesso rivela un quadro normale o non particolarmente alterato sotto il profilo clinico, a differenza di quanto avviene di solito nelle ernie del disco, perché nelle stenosi la compressione radicolare è cronica e non vi è infiammazione delle radici nervose.

La diagnosi si effettua di norma con la risonanza magnetica, che mostra la ristrettezza del canale vertebrale (Fig. 9) e la compressione delle strutture nervose. L’elettromiografia è utile per differenziare una neuropatia periferica da una sindrome da stenosi e documentare eventuali deficit muscolari.

Fig. 9 Stenosi canale vertebrale (immagine RM)

Trattamenti

Una stenosi non si riduce con il tempo ma, nel periodo lungo, tende ad aumentare. In questa patologia, quindi, l’intervento chirurgico è indicato più spesso che nelle ernie.

Trattamenti conservativi
Quando la stenosi è asintomatica o causa disturbi scarsi e discontinui, si può ricorrere a farmaci anti-infiammatori, infiltrazioni epidurali di un cortisonico nei periodi di dolore, e fisioterapia. In presenza di spondilolistesi degenerativa può essere utile un corsetto lombare.

Trattamenti chirurgici
In assenza di instabilità degenerativa
Il trattamento chirurgico ha, come obiettivo primario, quello di decomprimere le strutture nervose. Le metodiche chirurgiche comprendono: la laminectomia bilaterale, la laminotomia e l’applicazione di uno spaziatore interspinoso.
1) La laminectomia bilaterale consiste nell’asportazione dell’arco posteriore delle vertebre a livello dello spazio intervertebrale interessato. Ciò viene fatto attraverso un’incisione posteriore sulla colonna di circa 10 cm (per un singolo livello), divaricazione dei muscoli perivertebrali e progressiva asportazione delle strutture ossee posteriori e dei legamenti gialli posti tra le due vertebre. Il paziente può alzarsi dopo 1-2 giorni ed essere dimessso dopo 3. Questa metodica è indicata in pazienti con marcata ristrettezza del canale vertebrale e marcata sintomatologia agli arti inferiori, soprattutto se in età medio-senile o senile precoce. La percentuale di successo è di circa l’85% riguardo ai disturbi agli arti inferiori. Può residuare dolore lombare per alterazioni ad altri livelli vertebrali o per ecessaiva asportazione ossea, che può rendere le vertebre instabili.
2) La laminotomia consiste nel rimuovere, al livello intervertebrale interessato, una parte delle lamine e delle apofisi articolari, e il legamento giallo, come nelle ernie discali, ma in misura più ampia, e senza svuotare il disco se non coesiste un’ernia. La metodica comporta un’incisione di 4-5 cm, se viene usato il microscopio operatorio. La laminotomia può essere effettuata in un solo lato o in ambedue i lati dello stesso livello. Essa è indicata in presenza di stenosi centrale e sintomi in un solo arto inferiore o, in ambedue gli arti, in pazienti in età media o senile precoce con stenosi non particolarmente marcata. L’indicazione principale alla laminotomia, in ogni caso, è rappresentata dalle stenosi laterali. Il paziente si alza spesso dopo 1 giorno ed è dimesso dopo 2 giorni. La percentuale di successo è simile a quella della laminectomia centrale.
3) Spaziatori interspinosi. Possono essere applicati in anestesia locale “a cielo chiuso”, ossia con un’incisione di 2 cm a distanza dalla colonna (Fig. 3), controllando l’inserimento dello spaziatore radioscopicamente. Oppure, “a cielo aperto”, con una breve incisione cutanea sulla colonna. Sono simili a quelli usati per la lombalgia cronica, ma per una stenosi si usano di solito spaziatori in metallo. Lo spaziatore viene inserito tra le apofisi spinose delle due vertebre contigue, al livello interessato, in modo da allontanare le vertebre e distendere i legamenti gialli che, invadendo il canale vertebrale sono anch’essi responsabili della stenosi. Ciò porta ad un ampliamento delle dimensioni del canale e riduce la compressione delle strutture nervose. Il paziente si può alzare anche il giorno stesso ed essere dimesso in giornata o il giorno seguente. Lo spaziatore è indicato in pazienti con stenosi moderata o non particolarmente marcata, preferibilmente di tipo centrale, in età medio-senile o senile avanzata. La percentuale di successo è del 70%. In caso di non risoluzione dei sintomi agli arti, il paziente può essere operato a “cielo aperto”.

In presenza di instabilità degenerativa
Si effettua la decompressione delle strutture nervose con gli stessi interventi descritti sopra, con l’eventuale aggiunta di una fusione vertebrale quando la vertebra è instabile. La sola laminectomia bilaterale è raramente indicata poiché può rendere instabile la vertebra scivolata o farne aumentare lo scivolamento.

ERNIA DEL DISCO CERVICALE

Un’ernia discale cervicale, in senso strettamente clinico, è una condizione che causa una compressione di una radice nervosa cervicale o del midollo spinale.

L’ernia cervicale è più rara di quella lombare. I dischi più spesso interessati sono quelli tra quinta e sesta (C5-C6) e sesta e settima (C6-C7) vertebra cervicale. Di norma, le ernie sono contenute o espulse. La sede dell’ernia è mediana, postero-laterale o intraforaminale. La prima provoca di solito una cervicobrachialgia, ossia dolore al collo e all’arto superiore. Talora è presente solo dolore all’arto (brachialgia). Un’ernia mediana voluminosa può causare una compressione midollare, acuta o cronica.

Sintomi e segni clinici comuni

Ridotta mobilità del rachide cervicale, con possibile torcicollo. Aumento del dolore cervicale e/o all’arto nell’estensione del collo. Possibile riduzione di forza di uno o più muscoli dell’arto superiore, riduzione o scomparsa di un riflesso e disturbi sensitivi di uno o più dita della mano.

Sintomi e segni clinici specifici
Ernia C5-C6. Comprime la radice C6, che innerva la cute della regione antero-laterale del braccio e dell’avambraccio e il muscolo bicipite brachiale, e determina il riflesso bicipitale. Il paziente ha dolore al collo e nell’area di innervazione cutanea della radice e può lamentare addormentamento o formicolio al pollice e all’indice.

Alla visita medica, nelle sindromi deficitarie, vi può essere ridotta forza di flessione del gomito, riduzione o scomparsa del riflesso bicipitale, e ridotta sensibilità sul pollice e indice.

Ernia C6-C7. Comprime la radice C7, che innerva la regione posteriore del braccio e postero-laterale dell’avambraccio e il dito medio della mano. Essa innerva il tricipite brachiale e determina il riflesso tricipitale. Il paziente lamenta dolore nella regione posteriore del braccio e postero-laterale dell’avambraccio e può avere disturbi sensitivi in queste regioni o solo nel terzo dito della mano. 

Nelle sindromi compressive, l’esame clinico evidenzia un deficit di forza del tricipite brachiale, riduzione o scomparsa del riflesso tricipitale, ipoestesia nel terzo dito della mano.

Diagnosi strumentale
La risonanza magnetica (RM) è l’indagine di scelta, poiché può dimostrare l’ernia e le sue caratteristiche, l’eventuale stato degenerativo dei dischi adiacenti, ed escludere altre patologie cervicali. Talora la TAC può dimostrare l’ernia tanto bene o, anche meglio, della RM. Essa, tuttavia, non dimostra patologie midollari. L’EMG (elettromiografia) può essere utile per documentare eventualI deficit di forza muscolare.

Trattamenti
Conservativi
Per lo più il dolore si risolve in 4-8 settimane con anti-infiammatori, possibilmente cortisonici inizialmente e poi non-cortisonici, somministrati a dosi decrescenti. Un collare è poco indicato perché, estendendo il collo, può accentuare il dolore all’arto. La fisioterapia può essere utile per la cervicalgia.

Chirurgici
Un’indicazione chirurgica vi può essere in presenza di intenso dolore refrattario ai farmaci o di marcati deficit muscolari.

Chirurgici percutanei
In pazienti con marcato dolore all’arto superiore, ma scarsi deficit muscolari può essere indicata una una discectomia laser percutanea o una nucleoplastica. La prima si effettua con una piccola sonda introdotta nel disco sotto visione radioscopica, per asportare una parte del nucleo polposo e ridurre la pressione esercitata dall’ernia sulla radice. La nucleo plastica si effettua con una sonda di pochi millimetri (una sorta di ago) attraverso la quale si distrugge una parte dell’ernia con la radiofrequenza. Con queste metodiche si può ridurre, o anche eliminare, il dolore all’arto, favorendo il riassorbimento spontaneo dell’ernia. La percentuale di successo di queste metodiche è di circa il 70%.

Chirurgici a cielo aperto
L’intervento viene effettuato di solito per via anteriore con una breve incisione sulla regione anteriore del collo. Si svuota il disco, rimuovendo l’ernia, e si effettua una fusione dei corpi vertebrali adiacenti (artrodesi intersomatica). Con la metodica classica, l’artrodesi viene effettuata con un piccolo blocchetto osseo. Alternativamente, si possono usare inserti (gabbiette) inzeppate di osso o con blocchetti metallici in cui cresce osso come nella colonna lombare. Recentemente vengono usate anche protesi discali tra i due corpi vertebrali.

Di norma vi è una rapida scomparsa del dolore all’arto, e successivamente al collo, applicando un collare per 3-6 settimane o, con alcuni tipi di intervento, non applicandolo affatto.

STENOSI CERVICALE

Si distinguono due tipi di stenosi: del forame intervertebrale e del canale spinale.

La stenosi del forame intervertebrale è prodotta da artrosi, e conseguente aumento di spessore, delle articolazioni posteriori o da osteofiti (becchi artrosici) dei bordi posterolaterali del corpo vertebrale. Essa causa una compressione della radice nervosa che attraversa il forame.

La stenosi del canale spinale, è dovuta di solito ad alterazioni artrosiche delle articolazioni posteriori, osteofiti del bordo posteriore dei corpi vertebrali e protrusioni (non ernie) posteriori del disco, associati o meno ad abnorme ristrettezza costituzionale (caratteristica individuale) del canale spinale. Questa stenosi comprime il midollo spinale.

Sintomatologia e diagnosi
Stenosi del forame intervertebrale. Il quadro clinico è simile a quello di un’ernia discale, con la differenza che spesso non vi è dolore cervicale, ma solo all’arto superiore (brachialgia), e che i sintomi sono tendenzialmente cronici e meno intensi che nell’ernia. La diagnosi è fondata sulla risonanza magnetica (RM), ma anche sulla TAC, che può essere più diagnostica della risonanza. L’elettromiografia (EMG) può essere un utile ausilio.

Stenosi del canale spinale. Si possono distinguere, schematicamente, tre quadri clinici: 1) compressione centrale, caratterizzata da paraparesi spastica (difficoltà di cammino con andatura spastica), disturbi sensitivi, soprattutto negli arti superiori, alterazioni della funzione vescicale. 2) compressione laterale in un solo lato, con disturbi motori e sensitivi all’arto superiore. 3) compressione laterale bilaterale, con disturbi ad ambedue gli arti superiori e possibili disturbi della funzione vescicale.

Le radiografie (Fig. 10) possono mostrare alterazioni artrosiche delle articolazioni posteriori ed osteofiti del bordo posterolaterale dei corpi vertebrali ad uno o più livelli. La RM dimostra una compressione midollare posteriore da artrosi delle articolazioni posteriori e/o anteriore da osteofiti dei corpi vertebrali con o senza protrusione discale posteriore. Inoltre, possono essere presenti alterazioni degenerative del midollo (malacia). La TAC è di limitata utilità. Più utili sono l’EMG e i potenziali somatosensoriali evocati.

Fig. 10 Stenosi cervicale in severa artrosi

Trattamenti

Stenosi del forame intervertebrale. Il trattamento è inizialmente conservativo, basato su anti-infiammatori e fisioterapia. Talora può essere utile un collare. Se esso fallisce, è indicata la decompressione chirurgica della radice, effettuata di solito per via anteriore mediante discectomia, asportazione degli osteofiti postero-laterali del corpo vertebrale ed artrodesi intersomatica o protesi discale.

Stenosi del canale spinale. I pazienti asintomatici necessitano solo di sorveglianza clinica. In quelli con sintomi clinici già presenti, si deve effettuare una decompressione delle strutture nervose. In presenza di grave disfunzione midollare, l’obiettivo principale dell’intervento è di arrestare la progressione delle alterazioni midollari (mielopatia), poiché un miglioramento clinico può non ottenersi. L’intervento può essere eseguito per via posteriore o anteriore. La decompressione posteriore è indicata quando la compressione midollare è solo o essenzialmente posteriore. L’accesso anteriore è indicato quando la compressione è soprattutto anteriore. In questo caso, si esegue una discectomia e rimozione degli osteofiti ed una successiva artrodesi, o una somatectomia, che consiste nel rimuovere uno o più corpi vertebrali sostituendoli con un innesto osseo o con una lunga “gabbietta” riempita di frammenti di osso. Da alcuni anni esiste anche la possibilità di eseguire a “cielo chiuso”, cioè attraverso 2 piccole incisioni di 2 cm (Fig. 11), un intervento mediante cui si inseriscono due piccoli distanziatori tra le articolazioni delle vertebre cervicali. Tali dispositivi permettono di decomprimere la radice nervosa interessata dalla stenosi e stabilizzare il segmento articolare poiché viene inserito al loro interno sia osso autologo proveniente dall’alesaggio, sia sostituto osseo bioattivo (tri calcio fosfato) per permetter la fusione articolare posteriore (Fig. 12). Studi radiologici (TC) dimostrano un incremento dell’area del forame di circa il 30% (Fig. 13).

Fig. 11 Due incisioni di 2 cm permettono l’inserimento percutaneo posteriore di distanziatori tra le vertebre cervicali

Fig. 12 Distanziatore cervicale percutaneo tra la 4^ e la 5^ vertebra cervicale

Fig. 13 Aumento dell’area del forame dopo inserimento del distanziatore (controllo TC)

OSTEOPOROSI

È una malattia caratterizzata da diminuzione della resistenza dell’osso per alterata qualità e ridotta densità di esso, con conseguente maggiore predisposizione a fratture. La riduzione della densità ossea, ossia dell’indice di massa ossea (BMI, Bone Mineral Index), deriva da diminuzione delle proteine dell’osso e del contenuto minerale (fosfato di calcio) di esso. La predisposizione alle fratture riguarda soprattutto il collo del femore, le vertebre, la porzione alta dell’omero e il polso.

Classificazione e cause
Si distingue un’osteoporosi generalizzata che interessa tutto lo scheletro ed una forma distrettuale che riguarda solo un osso o alcune ossa. Le osteoporosi generalizzate possono essere primitive o secondarie. Le osteoporosi primitive, di gran lunga le più comuni, sono l’osteoporosi postmenopausale e l’osteoporosi senile. La forma postmenopausale è dovuta alla riduzione degli estrogeni che si verificano nella menopausa, i quali ostacolano il riassobimento del tessuto osseo da parte delle cellule a ciò deputate. L’osteoporosi senile è dovuta a ridotta produzione di proteine del tessuto osso da parte delle cellule che hanno questo compito, alla ridotta disponibilità di calcio per diminuito apporto alimentare e ridotto assorbimento intestinale, e alla ridotta attività fisica. Tra le più frequenti osteoporosi secondarie vi è quella dovuta all’assunzione protratta di cortisonici.

Epidemiologia
I dati epidemiologici sulle osteoporosi primitive indicano che un terzo delle donne dopo i 50 anni va incontro ad una frattura da osteoporosi. Il 12% di esse ha una frattura vertebrale.

Quadro clinico
L’osteoporosi generalizzata è asintomatica. Essa si manifesta per la comparsa di fratture, che possono avvenire a seguito di un evento traumatico, anche minore, o addirittura senza un vero trauma, come può avvenire per le fratture delle vertebre dorsali e lombari. Queste vertebre, soprattutto quelle lombari, possono andare incontro ad un avvallamento lento del piatto vertebrale superiore o inferiore, o di ambedue (deformazione a lente biconcava), senza dolore. Di solito, invece, una vera e propria frattura si manifesta con dolore acuto, che si accentua nei movimenti della colonna, costringendo il paziente a letto. Una frattura vertebrale deve essere sospettata quando un paziente anziano riferisce un intenso dolore vertebrale insorto improvvisamente e, quando visitato, dimostra un marcato dolore nell’assumere, con lentezza e circospezione, la posizione supina sul lettino del medico e poi nel riassumere la stazione seduta.

Diagnosi
Diagnosi di osteoporosi
Le radiografie del rachide consentono di fare diagnosi di osteoporosi solo quando la massa ossea è ridotta almeno del 30%. La diagnosi viene comunemente effettuata con la DEXA (o MOC). I valori di densità di massa ossea rilevati, vengono comparati al valore medio riscontrato in giovani adulti normali (T score). Quando i valori del soggetto esaminato sono tra –1 e –2,5 rispetto ai giovani adulti si parla di osteopenia, mentre è definita osteoporosi la condizione in cui i valori sono inferiori a –2,5. Il 30% delle donne in post-menopausa che hanno valori di –2,5 o inferiori hanno un elevato rischio di frattura e necessitano di trattamenti con farmaci. Il 15% delle donne con valori inferiori a -1 necessitano di trattamenti preventivi.

Diagnosi di frattura
Le fratture vertebrali avvenute di recente possono non essere evidenti su radiografie, o su queste può essere impossibile distinguere una frattura recente da una non recente. In questi casi, la risonanza magnetica consente di distinguere i due tipi di frattura in base alle alterazioni dell’intensità di segnale, ossia del colore dell’osso. Nelle fratture non recenti (più di 6-8 mesi) il segnale è simile a quello delle vertebre normali.

Prevenzione
Nell’osteopenia moderata è utile la prevenzione mediante un’adeguata assunzione, con la dieta, di proteine, calcio e vitamina D. Le ultime due possono essere somministrate con preparati farmacologici. Importante è anche l’incremento dell’attività fisica. Nella menopausa precoce in età giovanile o media (spontanea o chirurgica) può essere indicato l’uso di estrogeni (dopo consultazione con ginecologo).

Trattamenti
Nelle forme primitive in cui il T score è inferiore a – 2,5 il trattamento si basa sulla somministrazione di calcio, vitamina D e difosfonati. In alternativa ai difisfonati si possono usare gli estrogeni, i SERM (modulatori selettivi dei recettori per gli estrogeni) o il fluoro.

Nell’anziano, la somministrazione di calcio e vitamina D diminuisce nettamente la frequenza di fratture, anche in assenza di aumento della massa ossea. I difosfonati riducono il riassorbimento osseo. Nella post-menopausa, essi appaiono efficaci particolarmente nei primi 5 anni, in cui si verifica un rapido ricambio osseo (riassorbimento e produzione). I difosfonati di seconda generazione, come l’alendronato, prevengono la perdita di massa ossea e, rispetto a quelli di prima generazione, inibiscono meno la mineralizzazione dell’osso. Questi farmaci devono essere assunti per alcuni anni continuativamente.

Nell’osteoporosi postmenopausale gli estrogeni hanno dimostrato un’elevata efficacia nel ridurre l’osteoporosi. Il loro uso, tuttavia, comporta il rischio di metrorragie e la somministrazione prolungata aumenta il rischio di malattie cardiovascolari e di carcinoma dell’utero e della mammella. Essi sono indicati nei soggetti con basso rischio per queste malattie e in presenza di sintomi postmenopausali. Effetti simili hanno i SERM, tra cui il raloxifene, che addirittura riducono l’incidenza di cancro della mammella, ma aumentano i rischi di trombosi venosa profonda e riducono solo l’incidenza delle fratture vertebrali. Il fluoro stimola la proliferazione degli osteoblasti (cellule che producono le proteine del’osso), ma inibisce la mineralizzazione ossea e non riduce la frequenza di fratture delle vertebre e del collo del femore.

Il trattamento chirurgico delle fratture è simile a quello attuato per le fratture non osteoporotiche. Per le fratture vertebrali vedi Fratture vertebrali osteoporotiche.

FRATTURE VERTEBRALI DA OSTEOPOROSI

Sono fratture che interessano vertebre con ridotta resistenza meccanica per osteoporosi postmenopausale o senile.

L’osteoporosi può essere di tale entità che la frattura si verifica anche per normali movimenti della vita quotidiana. Una frattura osteoporotica interessa di norma soggetti anziani e non comporta una compressione delle strutture nervose vertebrali.

Quadro clinico e diagnosi
A differenza dei pazienti con frattura traumatica, quelli con frattura osteoporotica
assumono spesso la stazione eretta, seppure con intenso dolore, e vengono a visita ambulatoriamente non sospettando di avere una frattura, anche dopo molti giorni da quando questa si è verificata. Un paziente anziano che improvvisamente ha avvertito un intenso dolore toracico o lombare e che si pone supino sul lettino del medico con grande dolore e lentezza e si comporta in modo analogo nel riassumere la posizione seduta ed eretta ha elevate probabilità di avere una frattura osteoporotica.

Nel paziente con frattura osteoporotica è molto spesso necessario effettuare una risonanza magnetica (RM), che è in grado di differenziare una frattura recente da una antica (spesso l’anziano ha fratture osteoporotiche precedenti) per la modificazione del “colore” della vertebra, che la frattura recente comporta.

Trattamenti
Le fratture osteoporotiche toraciche e lombari possono essere trattate con riposo a letto per 3 settimane e poi applicazione di un corsetto ortopedico per 2-4 mesi. In questi pazienti, nelle prime settimane dopo la frattura, il corpo vertebrale spesso si deforma a cuneo con base posteriore o si schiaccia in tutta la sua estensione. Per evitare la cuneizzazione o lo schiacciamento, oltre che per diminuire il dolore e ridurre al minimo l’uso del corsetto, può essere effettuata una vertebroplastica o una cifoplastica (Fig. 14).

Fig. 14 Cifoplastica in frattura vertebrale recente (vertebra “nera” con edema alla RM) da crollo osteoporotico

La vertebroplastica “classica” viene effettuata iniettando nella vertebra del cemento acrilico (lo stesso usato per le protesi di anca o ginocchio), che si infiltra tra le trabecole ossee aumentando la resistenza dell’osso. Tuttavia, esistono altre metodiche in cui si fa uso di sottili lamelle di materiale “plastico” in aggiunta al cemento, o altre ancora in cui non si usa il cemento.

La cifoplastica consiste nel creare due aree vuote, a destra e a sinistra, nel corpo vertebrale mediante un palloncino gonfiabile, e nell’iniettare poi cemento negli spazi creati . Questa metodica ha due vantaggi rispetto alla vertebroplastica con cemento: minori rischi di fuoriuscita del cemento dalla vertebra con conseguenti possibili complicazioni, e possibilità di sollevare i piatti vertebrali (le estremità superiore e
inferiore del corpo vertebrale) ottenendo una parziale riduzione dello schiacciamento della vertebra. Ambedue le metodiche sono indicate in fratture recenti, ossia che non datano da più di 4 mesi, con presenza alla RM di edema nella vertebra alle sequenze T2 Stir. In fratture meno recenti non si riesce ad iniettare un’adeguata quantità di cemento perchè la frattura è in via di guarigione e non si riesce neppure a ridurre lo schiacciamento della vertebra.

Risultati
Il primo obiettivo di ambedue le metodiche è di ridurre il dolore vertebrale. L’entità del miglioramento del dolore è variabile, ma nella gran parte dei casi il dolore diminuisce, immediatamente o in pochi giorni, in misura marcata o quasi scompare. Ciò dipende anche dalla quantità di cemento che si inietta.

Con la cifoplastica, l’entità della riduzione dello schiacciamento vertebrale dipende da vari fattori, compreso il tipo di frattura e il tempo trascorso da quando essa si è verificata, e può variare dallo 0% fino al 20% o più dell’altezza originaria della vertebra.